Ippoliti al passo d’addio: “Dal Bentegodi al Bartolani, vi racconto una storia di calcio senza compromessi”

Ippoliti al passo d’addio: “Dal Bentegodi al Bartolani, vi racconto una storia di calcio senza compromessi”

Christian Ippoliti dice stop e non è una notizia di quelle che fanno piacere agli appassionati del nostro calcio, specie a quelli che hanno seguito buona parte della traiettoria calcistica di questo ragazzo.

Christian solo per l’anagrafe, perché da anni ormai tutti lo chiamano “Pippo“, è stato uno di quelli che, quando azzeccavano la giornata giusta, mandavano al manicomio gli avversari ed in visibilio i propri compagni.

Giunto all’ultimo capitolo della sua prima vita calcistica, ha deciso di raccontare la sua versione dei fatti.

Quella di un talento che probabilmente non è riuscito a sbocciare per intero per colpe sue, ma non solo.

Lo ha fatto con sincerità, senza nascondersi dietro un dito e senza omettere di aver spesso dovuto fare i conti con un carattere che talvolta lo ha tradito, ma che si è sempre irrigidito di fronte a quelle che considerava delle ingiustizie.

Oggi raccogliamo dunque le ultime parole del Christian, pardon del Pippo, Ippoliti calciatore, augurando a questo meraviglioso talento del nostro calcio che il bagaglio di esperienze accumulate nel segmento iniziale della sua vita possano portarlo ai successi che merita, in una nuova veste, negli anni a venire.

 

Ogni storia ha un suo punto di partenza.

La tua da dove comincia?

“Dal quartiere San Giovanni, dove tutt’ora vive la mia famiglia.

Eravamo quattro: mio papà Patrizio, mia mamma Carla e Francesco, il mio fratello maggiore.

Saranno per sempre loro le persone più importanti della mia vita”.

Come è nato dentro di te il desiderio di giocare a calcio?

“E’ sbocciato improvvisamente.

Un giorno ho detto a mia madre: “Portami a giocare a pallone”.

Siamo andati dietro casa, alla Romulea.

Da lì è cominciato tutto.

Da quel giorno non sono più riuscito a staccarmi dal pallone”.

In seguito, sei passato alla Lodigiani.

Che ricordi hai di quel periodo?

“Sono stato lì fino ai tredici anni.

Della Lodigiani ho solo bei ricordi: erano gli anni d’oro, quelli con Rinaldo Sagramola direttore generale.

Mi volevano tutti bene, sia i tecnici che i compagni.

Il mio idolo è sempre stato il “Divin Codino” e provavo ad emularlo con tutte le mie forze quando giocavo.

Pensa che mi chiamavano il “Piccolo Baggio” (ride)…

Andar via dalla Lodigiani lo considero comunque uno dei più grandi errori della mia vita”.

Streccioni e Fabbro ebbero una grande importanza negli anni del tuo sviluppo.

“Fu il primo a portarmi alla Lodigiani.

Per me Streccioni è stato un secondo padre in quegli anni.

Fabbro invece mi portò con sé alla Lazio ed insieme vincemmo un titolo nazionale con una squadra Giovanissimi che al suo interno annoverava anche gente come Roberto Delgado, Michele Gallaccio e Francesco Torroni.

Battemmo in finale la Roma a Misano Adriatico, eravamo davvero forti…”.

In quegli anni per te arrivarono anche convocazioni da parte delle nazionali Under 17 e Under 18.

“Dovevo partecipare ai Campionati Europei con l’Under 17 di Antonio Rocca, ma la settimana prima del raduno mi fratturai tibia e perone in uno scontro di gioco a cinque minuti dal termine di un match con la Vis Pesaro”.

lazio giovanissimi 2001

La convalescenza ed il recupero ti tennero fuori per l’intera stagione successiva, però la Lazio sembrava puntare parecchio su di te.

“Feci un anno con la Primavera e poi mi offrirono un triennale ma, di concerto con la mia famiglia, decisi di rifiutare ed accettai l’offerta dell’Avellino.

A conti fatti, anche quella però si rivelò una scelta sbagliata”.

Eppure, in biancoverde riuscisti ad esordire in Serie B.

Che ricordi hai di quel giorno?

“Era il 25 agosto 2005, una manciata di giorni dopo il mio diciannovesimo compleanno.

Giocavamo al Bentegodi di Verona di fronte a ventimila persone.

Mister Francesco Oddo mi fece entrare al posto di Allegretti, un giocatore fantastico, a venti minuti dal termine.

Era la prima partita di Serie B trasmessa in diretta da Sky e tantissime persone la videro.

Quando sono entrato in campo, mi tremavano le gambe, ma andò bene, anche se giocai da centrocampista centrale (sorride).

In squadra c’erano anche altri ragazzi classe ’86, ma io fui il primo ad esordire.

Ho ancora negli occhi l’emozione di mio papà, quasi in lacrime al termine della partita, e nella testa le mille chiamate che ricevetti dagli amici durante il viaggio di ritorno in macchina”.

Come andarono le cose in quella stagione?

“Mah, in squadra c’erano tanti giocatori forti, ma molti di loro purtroppo si sono persi.

Fu un peccato, perchè l’inizio fu molto positivo: prima l’esordio in coppa con il Siena e la gara successiva con il Frosinone giocata da titolare, poi l’esordio in campionato a Verona.

Successivamente giocai un altro scampolo di gara a Brescia, ma poco dopo le cose cambiarono con l’esonero di Oddo.

Franco Colomba decise di puntare su elementi più esperti, così io venni dirottato in Primavera, dove comunque realizzai sedici reti da centrocampista e, risultato storico per il club, giungemmo alla Final Eight perdendo agli Ottavi contro la Roma.

A fine stagione ho rescisso il contratto e sono ripartito da Rieti in C2″.

Avresti mai detto che sarebbe stato l’inizio di una lunga storia d’amore?

“Assolutamente no, eppure Rieti continua a rappresentare tutto per me.

Di Rieti amo tutto, è la mia seconda casa.

Quella fu una stagione davvero importante per me”.

Anche perché trovasti un altro mentore come Roberto Borrello…

“Una persona eccezionale ed una guida che mi ha insegnato tutto, non ho parole per ringraziarlo.

A volte, faceva degli allenamenti solo per me.

Il soprannome “Pippo” è stato lui a darmelo dal momento che faceva fatica a chiamarmi Ippoliti.

Quell’anno personalmente feci benissimo e mi si spalancarono tante porte, ma alla fine imboccai quella sbagliata e firmai un triennale a Potenza.

ippoliti potenza

Peccato perché sarei potuto andare a Reggio Emilia e giocare in una squadra che alla fine della stagione vinse il campionato.

Restasti in Basilicata un anno e mezzo, poi ci fu la parentesi in Svizzera con il Bellinzona.

“Restai lì quattro mesi, ma in effetti era solo un escamotage per poi tornare velocemente in Italia ed infatti firmai per il Mezzocorona”.

Di quei giorni fu l’incontro con Claudio Rastelli.

“Il mister stravedeva per me, mi chiedeva sempre il massimo.

Un giorno di aprile però litigammo nel corso di un allenamento.

Purtroppo io sono fatto così, non so tenermi nulla dentro.

E questa cosa nel calcio può rappresentare un grosso limite”.

Tornando indietro, ti regaleresti un pizzico di diplomazia in più?

“Ovvio.

Cambierei il mio carattere ma solo nel calcio, nella vita mia mi piace come sono fatto”.

Hai avuto modo di risentire Rastelli in seguito?

“Certo, lo chiamai e gli chiesi scusa per il mio comportamento.

L’anno dopo andò ad allenare il Pergocrema in C1 e voleva che lo seguissi, ma purtroppo non trovammo l’accordo e non se ne fece nulla.

Da lì sono cominciati i problemi per me…”.

Perché?

“Quello che all’epoca era il mio procuratore mi diceva di restare tranquillo perché voleva mandarmi in una piazza importante e così attesi sue notizie fino all’ultimo giorno di mercato di quell’estate.

All’improvviso mi chiamò e mi disse che stava per chiudere con il Como, così preparai in fretta la valigia e lasciai il posto dove mi trovavo in vacanza.

Quel che accadde ha dell’incredibile.

Attesi sue notizie, ma di fatto sparì nel nulla, salvo tornare a farsi vivo dopo due mesi, dicendomi che era saltato tutto all’ultimo secondo e non sapeva come dirlo a me ed ai miei genitori.

Una mazzata”.ippoliti rieti

Lì cominciò l’Ippoliti-bis a Rieti.

“Eh sì, tornai da papà Palombi, perché per me l’avvocato è stato molto più che un semplice presidente.

Quando lo vedo, gli dico sempre che, da quando ha smesso di farlo, mi ha rovinato la vita (ride)…”.

Stavolta però il Rieti è in Serie D.

“Ricominciare dai dilettanti è stato duro a livello mentale.

Purtroppo quella fu un’annata contraddistinta da mille problemi e terminò con una retrocessione che ci fece malissimo”.

Fu anche l’anno di quel famoso Rieti-Sporting Terni.

Cosa accadde quel giorno allo Scopigno?

“Era la prima gara ufficiale di fronte al nostro pubblico ed avevamo una grande voglia di far bene.

La gente, memore di quanto avevo fatto in precedenza a Rieti, urlava il mio nome.

Mister Schenardi aveva rassegnato le dimissioni due giorni prima ed in panchina sedeva provvisoriamente il preparatore dei portieri.

A due minuti dalla fine del primo tempo, sul 2-0 per noi questo signore continuava a rompermi le scatole ed io invece di battere un calcio d’angolo decisi di abbandonare il campo.

Ne venne fuori un caos apocalittico: i tifosi mi si misero tutti contro ed il presidente mi cacciò seduta stante.

Il giorno dopo la storia era riportata a pagina 3 del Corriere dello Sport…”.

Mica male come pubblicità.

“Di errori ne ho fatti parecchi e questo è stato certamente uno dei più grandi, però…”.

Però?

“La gente diceva che ero matto, ma io le ingiustizie non riuscivo proprio a sopportarle.

Altri stavano zitti, io parlavo, dicevo la mia, chiedevo spiegazioni.

Attenzione, quando sbaglio sono il primo ad ammetterlo, ma quando vedo cose particolari perdo il controllo.

Sono fatto così.

Quello comunque rimane uno dei giorni più brutti della mia vita”.

Secondo te, qual è l’elemento più ingiusto nel mondo del calcio?

“Te ne potrei elencare parecchi.

Il primo che mi viene in mente è che, soprattutto qui in Italia, non viene dato spazio al talento in senso assoluto.

Ci sono tante, troppe cose dietro personaggi illustri che a volte deviano il percorso di un giocatore”.

Come andò a finire?

“Può sembrare incredibile, ma il giorno dopo ricevetti la chiamata dello Sporting Terni.

Volevano che giocassi per loro, ma alla fine Apuzzo, nominato nuovo allenatore, disse alla società che non avrebbe firmato se non avessi fatto parte della rosa e così tutto rientrò.

Però una parola su Schenardi voglio dirla…”.

Prego.

“Una volta il mister dichiarò che io ero stato il calciatore più forte che avesse allenato.

Una frase del genere detta da un uomo che ha calcato i campi della Serie A mi ha reso orgoglioso”.

Tornando a quella stagione, purtroppo le cose andarono male.

“Complessivamente quattro tecnici si alternarono in panchina: dopo Apuzzo arrivò Mariani ed infine Polverino.

Io mi infortunai a cinque giornate dalla fine e non fui in grado di dare una mano nel finale di un campionato amarissimo”.

Da calciatore quali sono stati la tua più grande dote ed il tuo limite insormontabile?

“Il limite, come detto è stato il carattere

Diciamo che non si sposava bene con questo mondo.

Il pregio?

Beh, quando ero in giornata ero uno che sapeva far divertire le persone (sorride)…”.

rieti coppa italia

Nonostante la retrocessione sei rimasto a Rieti.

Perché hai scelto di giocare in Eccellenza?

“Ho scelto la serenità.

Mi sentivo a casa ed il club faceva degli sforzi economici assurdi.

E’ vero, in un anno ho perso due categorie e risalire era dura.

Comunque non mi sono perso d’animo ed ho cominciato la seconda carriera da dilettante.

Sono uno che nella vita non si è mai dato per vinto, questa è una delle poche cose buone che ho.

Credo di avere un carattere poco gestibile ma forte

Fosse dipeso da me, io a Rieti sarei rimasto tutta la vita”.

Ripartiste con una squadra giovane e che non veniva presa in considerazione nei pronostici d’inizio stagione.

“Era un gruppo giovane, ma con giovani forti.

Il primo anno arrivammo quarti, mentre la stagione successiva alzammo al cielo la Coppa Italia e chiudemmo al terzo posto dopo una rimonta straordinaria nella seconda parte del torneo”.

Quel giorno contro il Pisoniano una rete bellissima ed una corsa sfrenata verso il popolo amarantoceleste.

“Indimenticabile.

Fu una delle giornate più belle in assoluto della mia vita”.

Uno di quei giorni che un bimbo sogna di vivere quando decide di giocare a calcio.

“Sì, uno di quei momenti, anche se il calcio poi è tanto altro.

A volte, si dice: “Il calcio è uno stile di vita”.

Ecco, per me il calcio è vita.

Io vivevo per il calcio”.

La leggenda narra che tornaste a casa alle 10 del giorno dopo….

Si possono raccontare quelle ore?

“Prima il pranzo, poi la cena con i tifosi e poi una grande festa in un locale.

Alla fine tornammo a Rieti, ma nessuno aveva voglia di rincasare e così facemmo colazione tutti insieme.

Avevamo una squadra di matti, da Petrongari a De Simone, passando per quei giovani monelli di Rieti (ride)…”.

Marcheggiani

Di quella squadra meravigliosa l’unico che continua ad indossare quei colori è Francesco Marcheggiani.

“Ci sentiamo ancora spesso.

A Francesco auguro tutto il bene del mondo, perché è un ragazzo che merita: Intelligente, umile e grande lavoratore.

Ha delle caratteristiche tecniche uniche nel suo genere e, secondo me, riuscirebbe tranquillamente a far gol anche in Serie A.

Per me è un giocatore pazzesco ed ho la sensazione finalmente gli addetti ai lavori stiano aprendo gli occhi sul suo talento…”.

Il timoniere di quel Rieti era Fabrizio Paris, che da qualche settimana è approdato a Tivoli.

“Tengo molto al mister e ci siamo sentiti di recente.

Consigli non gliene ho dati, perché non ne ha davvero bisogno.

Paris è uno che sa il fatto suo e lo ha ampiamente dimostrato.

Un giorno mi piacerebbe molto collaborare con lui…”.

Fabrizio Paris

Per te vedi un futuro da allenatore?

“No, non avrei la pazienza necessaria.

Piuttosto mi vedrei bene da direttore sportivo.

In tanti mi dicono che sono nato per ricoprire un ruolo simile e ci proverò, perché questa prospettiva mi gratificherebbe.

Poi, se mi metto in testa una cosa, sai che difficilmente faccio un passo indietro (sorride)…”.

Perché finì la tua storia in amarantoceleste?

“Perché Palombi cedette il club ed io allora preferii seguire Paris al Monterotondo Lupa.

E feci bene, visto che vincemmo il campionato…”.

Ricordo le infinite polemiche per la famosa penalizzazione inflitta al Terracina.

Da dentro come vivevate queste situazioni?

“Noi eravamo sereni

Eravamo consapevoli che, se ci fosse stato lo spareggio, noi saremmo stati pronti ed ero sicuro che comunque lo avremmo vinto noi”.

Che squadra eravate?

“Una squadra che faceva paura, diversa da tante altre.

Una squadra fatta prima di uomini e poi di giocatori.

Non perdevamo mai.

Solo una la più dura.

Proprio quella con il Terracina.

A tre giornate dal termine, lì da loro, ma quella fu una gara che si giocò in un clima particolare”.

A vincere nel calcio è sempre  il gruppo, ma se ti chiedo di fare solo un nome: chi fu il giocatore determinante per voi quell’anno?

“Sono stati tre secondo me.

Fabio Ciasca, Vittorio Attili e uno su tutti:

Alessio Piccheri

Uno come lui non si trova

Una testa che andava oltre.

Ricordo una partita per noi decisiva a Morolo, dove vincemmo.

Ebbene, Alessio è stato capace, da solo, di non far giocare gli ultimi 7/8 minuti del match grazie ad un’esperienza e ad una malizia sportiva uniche.

Quella squadra contava su tanta gente molto forte”.

piccheri

La vostra generazione sta esaurendo la sua parabola agonistica.

Spesso si dice che quella successiva intenda il calcio in modo differente rispetto al vostro.

Sei d’accordo?

“Purtroppo si e di questo mi dispiace tanto.

I giovani d’oggi hanno troppe cose che li deviano dal loro percorso”.

A cosa attribuisci la colpa principale?

“Hanno un altra mentalità, sembra che tutto gli sia dovuto.

Se io a vent’anni mi fossi permesso di rispondere a qualcuno o avessi avuto un comportamento sbagliato all’interno dello spogliatoio, prima le avrei prese dai miei compagni e poi sarei stato costretto a cambiarmi nel magazzino.

Oggi le cose sono molto cambiate…”.

Veniamo alle ultime stagioni…

“Nelle ultime stagioni ricordo la splendida salvezza con il Cisterna anche quella una grandissima squadra.

A dicembre avevano 5 punti in classifica, poi cambiammo marcia e ci salvammo ai play out.

Eravamo allenati da quello che io considero uno dei più forti allenatori in circolazione, Mauro Venturi

Un amico, anzi un fratello”.

Mauro Venturi All. Aprilia

Aggiungo che è pure il tecnico che attualmente comanda la classifica nel Girone E di Serie D.

Secondo te, Venturi può costruirsi una carriera tra i pro’?

“Per me ne ha le capacità e glielo auguro di vero cuore”.

La maglia più preziosa nel tuo cassetto è quella del…

“Quella del Rieti, non ho dubbi.

Quella città, quei tifosi sono stati e saranno sempre qualcosa di speciale per me”.

Tifosi Rieti

Il Rieti ha avuto un inizio di stagione particolarmente delicato, però pochi giorni fa c’è stata questa grande gioia del derby vinto con la Viterbese…

Può arrivare questa salvezza?

“Lo spero anche se sarà veramente dura.

E’ un girone tostissimo.

Con questa testa, però, possono arrivare lontano.

I tifosi sabini meritano tutte le cose più belle ed ho promesso loro che andrò in curva appena mi sarà possibile per tifare insieme a loro”.

Chi ha visto serie d ed eccellenza negli anni, sostiene che i calciatori di una certa età in questo calcio possano ancora fare la differenza e non mancano validissimi esempi a certificarlo..

Tu di calcio ne avresti ancora tanto nelle gambe e nella testa.

Perché allora smetti?

“Perché il lavoro mi ha tolto tante energie e poi non sento più quel fastidio alla pancia che provavo la mattina prima di andare a fare una partita.

Quando cominci a vedere il calcio in un’altra maniera, è arrivata l’ ora di pensare ad altro.

D’altronde, per me la vita è così: per me o é tutto bianco o é tutto nero”.

ippoliti borghese

Chiudi gli occhi ed immagina di vedere un bambino che cammina mano nella mano con mamma e papà lungo via Magna Grecia, magari gioca con i suoi amici in Piazza Re Di Roma e che piano piano comincia a sognare di fare il calciatore un giorno.

Ora riaprili e dimmi: quel bimbo ha realizzato il suo sogno per intero o gli resta un pizzico di rimpianto in senso assoluto?

Per intero no (risponde con un filo di emozione nella voce).

Sento ancora le persone che mi dicono che ho buttato all’aria il mio talento e di certo con la testa che ho adesso avrei fatto di più.

Nella vita mi porto dietro tutto.

E tutto lì, dentro il mio bagaglio:

errori, gioie e delusioni.

Di sicuro potevo e dovevo fare qualcosina in più.

Non solo per me ma anche per le persone che mi hanno accompagnato fino ad oggi.

Oggi comunque sono semplicemente uno che sogna di essere felice e sereno.

Sono un ragazzo che si accontenta delle piccole cose…

Tra i sogni che non sono riuscito a realizzare c’era forse quello di diventare l’unico calciatore ad aver militato in tutte le categorie.

Sarebbe stata una cosa carina, ma mi è mancata la Seria A.

Pazienza (sorride)…”.

 

 

 

 

 

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