Dodici mesi, alle 11.05 del mattino, dodici mesi senza il più grande rappresentante del calcio giovanile laziale su di una panchina: ma sul piano umano, prima che su quello tattico, tecnico, gestionale, manca un ragazzo coraggioso, forte e dignitoso, discreto ed educato, in un mondo di prevaricazione, uno che non ha avuto bisogno di alzare i toni, quasi mai. Si arrabbiava, Paolo Testa, soltanto quando si parlava di certi, schifosi vezzi quali il razzismo, la prepotenza, il fascismo. Paolo se ne è andato un anno fa e una folla oceanica, immensa, ha faticato, a separare, a distinguere, il gran bravo ragazzo dall’allenatore vincente, il più vincente di tutti, con tre scudetti vinti in un ciclo meraviglioso. Paolo il discreto, l’amico fraterno di tanti che lo portano nel cuore, in qualsiasi latitudine, dal Cile a Cuba, da Mosca a Barcellona, da Roma Nord a tutte le latitudini di una regione, tra avversari incontrati, battuti, nella stragrande maggioranza dei casi, coi quali si è misurato sul piano del rettangolo di gioco, senza furbate.
In tanti, abbiamo perso qualcosa, come succede quando se ne va uno sensibile, profondo, forte, soprattutto umile, lavoratore, innamorato di quell’opera svolta sui campi della sua famiglia, del nonno, del padre, e che lui ha vissuto, respirato, portando per mano almeno tre generazioni di calciatori, di ragazzini che non potevano deludere mister e società, che davano retta alla loro guida senza che la stessa dicesse una parola. Paolo si è fatto capire con uno sguardo, un cenno, un parere, detto senza il timore di sbagliare: i giocatori, come gli amici, li ha sempre conosciuti e approfonditi, mai studiati, mai osservati con distacco.
Parlare di Paolo Testa è semplice e, allo stesso tempo, complesso. Facile perché ha saputo farsi volere bene, ha costruito i rapporti umani prima che quelli sportivi, professionali, lavorativi: ha teso una mano quando c’era bisogno a questo o quell’amico, ha dato una sua opinione sapendo misurare le parole, senza uscire dal seminato. Difficile perché parliamo di una persona che ha saputo tenere lontani gli artifici del presunto progresso che gira da diversi anni, ha cercato nel suo ambiente quelle certezze di una vita intera, dedicandosi, anima e corpo, a quell’idea di fare calcio con il libero staccato, e lo ha fatto scommettendo sul club di Massimo, il papà, eludendo la naturale tentazione di andare alla Roma, alla Lazio, alle rappresentative federali. Cosa gli mancava? In definitiva ha vinto nel 2001 con gli allievi, nel 2004 la prima volta con la juniores, lo stesso anno con i giovanissimi con cui è arrivato terzo, a Moena, in Trentino. E, al ritorno a Roma, ha vinto lo scudetto juniores riportandolo a casa dopo 13 anni, tanto tempo. Tanta roba. Ha continuato a vincere un’altra volta con gli allievi e in tutto ha conquistato sei titoli regionali coi ragazzi di 18 anni, categoria di famiglia, verrebbe da dire, su otto finali disputate. E sarebbero arrivati, 2009 (contemporaneamente altro titolo regionale, con gli allievi!) e 2010, altri due scudetti, con un gruppo fantastico, per i palati fini del calcio. Ha rivinto nel 2011 in regione, con la juniores, uscendo ai rigori a Sinalunga, in Toscana. Sarebbe stata quella, l’ultima avventura fuori dal Lazio. Eppure, dopo una delicatissima operazione allo stomaco, che aveva restituito un po’ di speranza a chi gli ha voluto bene. Poi nell’estate dello stesso anno, quella stupenda giornata, felice, gioiosa, amorevole, del matrimonio con Fabiana, la sua compagna, amica, il suo punto di riferimento nella vita.
La parabola è finita, qui, in Terra, il giorno 16 gennaio 2012, dopo essere andato in panchina fino a dicembre, a Villanova, vittoria per 1-0. Quella è stata l’ultima volta che un tricampione d’Italia, un nove volte campione regionale tra Juniores, Allievi e Giovanissimi, avrebbe seduto su una panchina. Ha detto bene, un profondo, dolce amico, Giulio Pezzali, in quel sabato 22 gennaio, appena sei giorni dopo la dipartita di Paolo, al “Vittorio Bachelet” di Monteverde, Roma, appena prima di Olimpia-Tor di Quinto, con il presidente, Massimo, tornato, per la dolorosa circostanza, in panchina: “Il freddo più intenso è dentro, ben oltre di quanto accada di fuori”. Sarebbe stato il primo sesto giorno della settimana senza che sui campi ci fosse andato l’uomo e, insieme, l’allenatore capace di dare visibilità, valore, prestigio a un campionato intero, e non solo in regione bensi in tutta Italia.
Paolo ieri, col sorriso di ragazzo, Paolo oggi, per ciò che ci ha donato, sul piano personale e nello sport. Paolo domani, per ciò che, con semplice fare, ci ha insegnato, lasciato, costruito, dentro.
Max Cannalire