Duecentotre giorni fa la tibia ed il perone della gamba destra di Alessandro Bianchini hanno fatto crac.
Un’entrata un po’ azzardata del giovane centrocampista del Ladispoli Luca Pugliese (ceduto in estate al Frosinone, ndr) a pochi minuti dall’inizio del match casalingo tra il suo Grifone Monteverde ed i tirrenici ha spedito il difensore centrale romano all’interno di un tunnel del quale tuttavia ora comincia a filtrare la luce.
Dopo quasi sette mesi di calvario, Alessandro è clinicamente pronto per fare il suo ritorno in campo.
Non gli resta che salire l’ultimo gradino, quello step mentale che lo faccia sentire pienamente sicuro di affrontare una partita vera.
L’idea sarebbe quella di (ri)esordire l’undici ottobre, quando al Villa dei Massimi si presenterà proprio la formazione di Solimina.
Per lui sarebbe l’ideale chiusura di un cerchio, la fine di un periodo sofferto, ma che lo ha anche portato a sentire sulla propria pelle l’affetto di tante persone che tiene a ringraziare.
L’occasione del suo prossimo ritorno all’attività agonistica ci permette di conoscere meglio un atleta che ha avuto modo di vivere il calcio che conta ed il suo pensiero circa molti temi caldi del nostro settore.
Alessandro, da dove vuoi cominciare?
“Non posso che partire da quel maledetto 22 febbraio: il dolore, l’attesa dell’arrivo dell’ambulanza per ventisette, lunghissimi, minuti, la telefonata durante il viaggio verso l’ospedale a mia moglie Priscilla che, di solito, viene sempre a vedermi giocare e che quel giorno ha preferito non farlo perchè il giorno dopo nostro figlio Francesco doveva operarsi alle adenoidi.
Difficile dimenticare quel giorno”.
Lo sconforto, ma anche il calore degli affetti.
“Sono tante le persone che meritano i miei ringraziamenti.
Quando si vivono momenti come quelli che ho passato io la cosa più naturale è dire grazie a quelle persone che ti hanno manifestato maggiormente la propria vicinanza.
Mia moglie ed i nostri due bambini, Francesco e Diego, insieme a mia madre ed a mia sorella sono al primo posto da questo punto di vista.
Un grazie speciale va a Romano Franceschetti, un secondo padre per me.
Un uomo vero ed una persona onesta.
A seguire metto il massaggiatore del Grifone Monteverde, Roberto Locci, una persona eccezionale.
Per una fatalità neppure lui era presente al campo quel giorno, perchè era ammalato.
Nonostante questo, appena ha saputo cosa mi era successo si è precipitato in ospedale con 39 di febbre ed è stato la prima persona che ho visto, quando si sono spalancate le porte dell’ambulanza.
Una menzione speciale la meritano il presidente Stefano Ulisse, che non mi ha mai fatto mancare nulla durante questi mesi, riconoscendomi ugualmente tutti i rimborsi, e Stefano Sgherri che nei miei sei giorni di ricovero è venuto quotidianamente a trovarmi.
Con lui è nato un rapporto stupendo, è una persona, a dir poco, magnifica.
Un aggettivo che riservo anche a Mirko Ruggiero e ad Alessandro Barbarella.
La mia riconoscenza va anche a Luca Impara che mi ha fatto operare da un grandissimo ortopedico come Fabio Favetti, di cui ho apprezzato tantissimo la gentilezza e la disponibilità e che mi ha permesso di metter da parte le stampelle dopo appena quarantacinque giorni dall’intervento.
Ultimo ma non ultimo, ringrazio di cuore il professor Umberto Mei che, dopo appena quindici sedute di fisioterapia, mi ha letteralmente rimesso al mondo”.
Per te sta per aprirsi la terza stagione al Grifone Monteverde…
“Ormai è la mia seconda famiglia.
Con il presidente, con Christian Silvestri e Daniele Proietti ho un rapporto bellissimo.
Quest’anno siamo ripartiti con un nuovo progetto tecnico: ho conosciuto ed apprezzato mister Pino Porcelli e suo fratello Luigi, due persone molto gentili e disponibili.
Il tecnico sta lavorando secondo le sue idee di calcio e quelli più grandi del gruppo, come il sottoscritto, Ruggiero, Romagnoli e Mancini cerchiamo di dargli una mano”.
Che tipo di obiettivo deve fissare il Grifone Monteverde, a tuo giudizio?
“Noi dobbiamo pensare alla salvezza.
Per il resto, vedo un campionato equilibrato con quattro squadre che sembrano avere una marcia in più, lo Sporting Città di Fiumicino, il Ladispoli, la Nuova Monterosi ed il Cre.Cas. Città di Palombara, ed una come la Vigor Acquapendente che fece molto bene già lo scorso anno e che anche in questa stagione potrebbe rivelarsi una mina vagante”.
Nella tua carriera hai avuto modo di calcare palcoscenici importanti.
“Ho cominciato a Montespaccato, poi ho vissuto la trafila nel settore giovanile della Lazio, avendo tra gli allenatori gente come Patarca e Torrisi.
Arrivato in età per gli Allievi, la Lazio non ha più creduto in me ed allora sono andato alla Romulea che, dopo un anno, mi ha ceduto all’Ascoli.
Lì ho giocato nella Primavera ed ho esordito anche in C1.
In seguito sono stato ceduto in prestito al Grosseto, con cui ho vinto un campionato di Serie D da under, e successivamente sono venute le esperienze di Perugia, Novara e successivamente i due anni nella Serie B belga con la maglia dell’Excelsior Virton e quello nella Virtus Lanciano.
Dopo per vari motivi ho scelto di tornare tra i dilettanti, ripartendo dall’Ostiamare”.
Cosa differenzia maggiormente un campionato pro da uno dilettantistico?
“A livello di metodologie di allenamento non c’è tanta differenza.
A scavare il solco sono soprattutto la mentalità e la velocità di pensiero e di esecuzione del gesto tecnico”.
Spesso ci si chiede se un calciatore con trascorsi importanti possa avere la testa giusta per calarsi in un calcio profondamente diverso.
“La differenza la fa l’allenamento.
Se sei forte, ma non ti alleni vai fatalmente incontro a figuracce.
A render meno complicato l’impatto può però contribuire l’organizzazione di un club”.
Come giudichi l’attuale livello del campionato di Eccellenza?
“Credo si sia abbassato, a causa del ridimensionamento economico dovuto alla crisi, ma anche per l’eccessivo numero di giovani che vengono impiegati e che, a volte, non si dimostrano pronti per queste categorie”.
A causa del momento economico, però, anche la categoria di cui fa parte dovrebbe fare un passo indietro e non inseguire le cifre di un tempo…
“Oggi è impensabile pensare di vivere con un rimborso.
Tanto per citare un esempio, un mio ex compagno di squadra, Lorenzo La Ruffa, ha deciso di accettare l’offerta della Virtus Ladispoli e di scendere di categoria perchè gli proponevano un contratto di lavoro.
Credo che ormai bisogna fare i conti con la realtà e l’idea di alcuni club di offrire posti di lavoro è apprezzabile, a mio giudizio.
Penso ad uno come Di Fiandra che ogni anno fa venti gol e che potrebbe tranquillamente giocare in Serie D, ma che saggiamente ha sposato il progetto del Città di Fiumicino per avere un avvenire più sereno.
Ciro ha fatto la scelta giusta per me”.
Ti senti mentalmente pronto per tornare in campo?
“Nei primi giorni dopo l’infortunio avevo promesso a mia moglie che avrei smesso, poi però la voglia è tornata in maniera prepotente.
Non vedo l’ora di rimettermi gli scarpini, anche se un pizzico di timore ancora c’è.
Ormai però sono quasi pronto.
Ad agosto ancora zoppicavo, mentre adesso faccio praticamente ciò che fanno i miei compagni durante l’allenamento.
Il mio obiettivo sarebbe tornare in campo proprio contro il Ladispoli, non per una questione di rivalsa, ma perchè vorrebbe dire che si è giunti alla chiusura di un simbolico cerchio.
Sarebbe destino”.
Ad un calciatore costretto a fare i conti con una convalescenza lunga come la tua cosa manca maggiormente?
“Lo spogliatoio, non ho dubbi.
E’ lì che scoppiano le discussioni tra i compagni e poi le risolvi, lì che vivi l’adrenalina.
E’ lì che vinci le partite”.
Quanto conta la scaramanzia nel calcio?
“Non so, io non ho rituali particolari.
L’unica cosa magari è che, prima di ogni partita, devo ridere e scherzare, altrimenti c’è qualcosa che non va e non rendo al meglio”.
Quando tornerà in campo a chi spetterà comandare la linea tra te e Ruggiero?
“A Mirko, lui è più carismatico di me”.
Fammi il nome del compagno che negli anni hai apprezzato di più e di quello che avrebbe meritato miglior sorte sotto il profilo calcistico.
“Quello che mi ha impressionato di più probabilmente è stato Drazen Bolic a Lanciano, mentre quello che avrebbe certamente meritato una carriera diversa è Alessandro Sabatino, che adesso è a San Benedetto del Tronto.
Sandro avrebbe potuto certamente fare una buona carriera in B e non lo dico perchè ci conosciamo da trent’anni, essendo dello stesso quartiere”.
Ogni giocatore ha il suo numero preferito.
Il tuo qual è?
“Il cinque.
Quella maglia la sento mia da sempre e tranne un anno l’ho sempre indossata.
Era la maglia di Falcao, uno dei calciatori più importanti della storia della Roma, la squadra per cui faccio il tifo.
E’ un numero speciale per me”.
Ognuno di noi ha un rimpianto.
Posso chiederti il tuo?
“Più che di rimpianti possiamo parlare di pensieri più o meno ricorrenti: il primo è non essere andato al Palermo, quando i siciliani approdarono in C1, mentre il secondo è non aver ascoltato i consigli di Moriero che voleva portarmi con sè a Crotone dopo l’anno di Lanciano.
Lì feci scelte diverse anche perchè pensavo alla stabilità familiare, ma forse fui comunque troppo affrettato”.
L’emozione che conservi nel cuore, invece, a quale evento è legata?
“Mi viene in mente la prima stagione in Belgio.
Per alcune settimane avevo dovuto mordere il freno per problemi di tesseramento.
Quando si risolsero, esordii contro l’Antwerp e dopo due minuti feci gol di testa.
Allo stadio non c’erano barriere, fu una sensazione indimenticabile essere abbracciato da compagni e tifosi.
Lì era un calcio profondamente diverso per cultura.
Lì è un divertimento, non ci sono quasi mai problemi di ordine pubblico.
Se potessi, tornerei volentieri a giocare lì”.
E se invece potesse dare un consiglio ad un giovane che sogna di intraprendere la carriera del calciatore?
“Gli consiglierei di applicarsi tre volte più del necessario e di seguire i consigli di chi è più grande, prima di tutto dei genitori e poi del mister e dei compgni più esperti.
In ogni ambito ci sono delle regole da seguire e vanno rispettate, però a sedici anni i ragazzi vogliono spaccare il mondo.
Nella nostra squadra ci sono due/tre elementi che possono fare strada ed io e Mirko proviamo a parlarci quotidianamente, a fargli capire che ciò che fai oggi te lo ritrovi, nel bene e nel male, domani.
Uno di questi è Alessio Di Maggio, un ’97 che potrebbe fare il professionista.
E’ anche vero però che da dieci anni a questa parte i tempi sono cambiati.
Prima i vecchi in squadra era la maggioranza e seguirli era anche più semplice.
Adesso invece i ragazzi tendono a stare con i loro coetanei, perchè il giocatore più esperto magari brontola o lo riprende.
Sono comunque fiducioso perchè con gente come Proietti, Silvestri e lo stesso Biagioni al Grifone Monteverde ci sono responsabili tecnici che a questi ragazzi possono trasmettere davvero tantissimo.
Non posso che pensare a Mazzoleni.
Quando era con noi, sembrava un bambino ma aveva una grandissima testa.
Guardate ora dov’è”.
Quando smetterai, farai l’allenatore?
“No, grazie.
Non mi ci vedo proprio in quel ruolo.
Piuttosto mi piacerebbe intraprendere la carriera del direttore sportivo, un ruolo che ormai qui nel Lazio sembra essere stato messo da parte.
Mi viene in mente Manfra, che è molto preparato, e pochi altri”.
Un sogno?
“Finire vincendo un campionato con il Grifone Monteverde non sarebbe male (ride)…”.