Per qualcuno nel nostro ambiente è più famoso dello stesso Presidente del Comitato Regionale, per altri è il volto bello del dilettantismo laziale, per altri ancora è una scheggia impazzita, l’elemento che destabilizza a colpi di goliardia.
Per tutti è “Big Head”, o “Testone” se preferite.
Da quando l’Atletico Vescovio è stato fondato nel 2003, lui c’è sempre stato: prima come capotifoso, poi come colonna portante di un club che rappresenta un unicum nel calcio laziale.
Da un paio d’anni, su richiesta degli altri soci, Stefano Vaccari ne è addirittura divenuto il massimo dirigente.
“Quando vado sugli altri campi e la gente mi chiama Presidente, mi viene da ridere, ma sono comunque orgoglioso di rappresentare questi colori”.
Un amore intenso, radicato nell’anima e che lo ha portato perfino a mettere a repentaglio la sua stessa vita.
Acqua passata, adesso si sta godendo fino in fondo questa prima, indimenticabile, stagione in Eccellenza, progettando magari di festeggiare l’agognata salvezza a modo suo.
Come?
Assumendo le sembianze di quel “Crazy Horse” che ha restituito ad un ambiente forse troppo rigido e serioso come il nostro quel tratto di umanità ed auto-ironia che spesso fatichiamo a rintracciare.
Cominciamo dalla vita di tutti i giorni.
Al di fuori del calcio, cosa fa Stefano Vaccari?
“Sono un operaio.
Lavoro per una ditta di manutenzione a Porta san Paolo sulla tratta Roma-Ostia Lido”.
Parlami delle tue prime esperienze con il calcio.
“A dire il vero, non ho giocato molto.
Ho cominciato all’Atletico 2000, poi sono andato alla Royal.
All’inizio ho provato a fare il portiere, poi mi sono stufato del ruolo e mi sono messo a fare la punta.
Ad un certo punto, però, ho cominciato ad essere grassottello e ho deciso di lasciar perdere, anche perchè purtroppo ho perso mio padre a quattro anni e c’era da aiutare mamma.
Farlo e poi andare agli allenamenti sarebbe stato troppo impegnativo.
La domenica però era sacra”.
Come la passavi?
“Andavo a vedere mio zio che giocava in Prima Categoria con le maglie di Centrale del Latte, Bufalotta e Tirreno.
E’ stato grazie a lui che ho conosciuto praticamente tutti i campi del Lazio.
Ricordo ogni singola partita come se fosse ieri.
A quell’epoca, i campi in erba li vedevi sono in televisione e dal vivo te li sognavi.
C’erano solo quelli di terra, però a quei giocatori non gliene fregava niente.
Li sentivano loro.
D’altronde, era così o niente.
E quella Prima Categoria per valore sembrava l’Eccellenza odierna.
Non è come adesso che i ragazzini non ci vogliono più giocare”.
Una questione di generazione.
“Certo, televisione e internet hanno rovinato tutto.
Adesso dai cinque ai tredici anni i genitori accompagnano al campo i figli ed i ragazzini li vedi arrivare col tablet.
Alla loro età io prendevo l’autobus da solo, mia madre mi responsabilizzava.
Adesso i genitori sono sempre con i figli e questo genera ovviamente discussioni al campo, perchè ogni tanto viene fuori quello che ti chiede perchè il figlio gioca meno”.
Parliamo di Atletico Vescovio.
Ci sei stato dall’inizio?
“No, ma quasi.
La società è stata fondata da un gruppo di ragazzi all’indomani di una vacanza in Spagna.
Questo è il motivo per cui i colori sociali sono quelli dell’Atletico Madrid.
Io sono presente dall’8 settembre del 2003″.
Ti ricordi quel giorno?
“Quell’anno la squadra era in Terza Categoria e giocava il sabato pomeriggio alle tre a Villa Spada.
Alcuni amici mi hanno detto di andare a dare un’occhiata a quei ragazzi e me ne sono subito innamorato.
Per tutta la passione che ci mettevo mi hanno subito nominato capo-tifoso.
Da lì è cominciato tutto…”.
Cosa rappresenta per te l’Atletico Vescovio?
“Questa società per me conta come mia moglie ed i nostri bambini.
Sì, scrivi che è un figlio.
Tanti non capiscono i sacrifici che si fanno per una squadra che si auto-finanzia, ma se sento qualcuno che parla male della nostra realtà io m’inalbero.
Qui c’è gente che ha dato tutto ed anche di più per far vivere l’Atletico Vescovio.
Senza Ermanno (Pansa, ndr) questo giocattolo sarebbe finito da un pezzo.
E non dimentico ciò che hanno fatto e continuano a fare due come Daniele Santilli e Sacha Di Tosto, specie per il nostro settore giovanile.
Sono due anni che è stato messo in piedi e l’anno prossimo speriamo di avere almeno tre categorie nei regionali”.
Cosa pensi quando ti dicono che sei diventato più famoso dello stesso presidente Zarelli nel nostro ambiente?
“Beh, che devo dire?
Questa cosa mi inorgoglisce.
Si vede che qualcosa di buono l’ho fatto.
Più di tutto però sono fiero della crescita di questa società.
Una volta, quando andavamo in trasferta, ci puntavano il dito contro e dicevano: “Li vedi quelli là?
Quelli combinano solo casini”.
Ora noto più rispetto per noi.
Per carattere io mi faccio voler bene da tutti.
E’ chiaro che, ogni tanto, si può discutere, però di fondo rimango un buono”.
Ti sei mai chiesto perchè istintivamente la gente finisce sempre col volerti bene?
“La gente si affeziona a me perchè sono uno vero, sincero e, se qualche volta sbaglio un termine o un’espressione, non ci fa caso.
Pensa che addirittura qualcuno mi vorrebbe come uomo-immagine, ma a me non interessa.
Finchè esisterà, il mio cuore sarà solo per l’Atletico Vescovio”.
Un amore per il quale hai rischiato anche la vita.
Te la senti di parlarne?
“Era il 7 dicembre 2014, ricordo quel giorno come se fosse ieri.
Noi giocavamo a Bolsena.
Da qualche tempo mi ero messo a dieta ed avevo perso un bel po’ di chili.
Questo perchè avevo problemi di pressione alta ed il medico mi aveva detto di evitare il sale, oltre a prescrivermi la medicina del caso.
La mattina mi misuro la pressione e dico a mia moglie: “La minima è ottanta, oggi la pasticca non la prendo”.
Arrivo al campo e c’è un bellissimo sole, ma dopo un po’ la temperatura scende ed io comincio a sentirmi poco bene”.
Continua.
“Accanto a me c’è Giordano Moroncelli che mi fa: “Amoruccio mio (testuale), che hai oggi? Ti vedo strano”, ed io gli rispondo che non lo so.
Finita la partita, saluto e monto in macchina insieme a Francesco Casanova, ma dopo pochi chilometri la vista mi si appanna e non vedo più.
In quel momento ho temuto di essere diventato cieco.
Corriamo al Pronto Soccorso dell’Ospedale di Montefiascone e da lì a Viterbo, dove mi dicono che ho un’emorragia cerebrale in atto.
Sono stato male per dieci giorni, ma non tanto per questa situazione, quanto per il fatto che non potevo seguire la squadra.
Alla fine, anche questa ce la siamo lasciata alle spalle.
Mai arrendersi”.
La squadra però ti ha ripagato alla grande.
Che ricordi hai, ad esempio, di quel giorno a Genazzano contro l’Arce?
“Più che di quella vittoria mi piace parlare di quella sul Sant’Angelo Romano”.
Prego.
“Avevo paura.
Avevamo fatto un campionato stellare, eppure temevo che ci saremmo giocati tutto quello che avevamo costruito in novanta minuti.
Invece vincemmo.
Quando l’arbitro ha fischiato la fine, ho abbracciato forte Giordano e mi sono messo a piangere come un bambino, perchè in momenti come quelli ti si scioglie tutto quello che hai dentro e non ti devi vergognare.
A proposito, Giordano Moroncelli è mio fratello.
Lui e Daniele Casadei, che rimane il giocatore che più mi ha fatto emozionare in questi tredici anni di Atletico Vescovio.
Parliamo di gente vera, come penso di essere anch’io.
Scrivilo, mi raccomando”.
Sarà fatto.
Io però resto in tema-play off e ricordo che durante la partita con il Cedial Lido dei Pini ha fatto la sua (per ora) ultima apparizione il tuo alter ego: Crazy Horse.
“Prima dei novanta minuti mi ero messo d’accordo con Guido Zenga, il direttore sportivo del Lido, che a prescindere dal risultato avrei fatto invasione.
Purtroppo la polizia non aveva capito il senso della cosa e mi voleva dare il Daspo.
Per fortuna, dopo molte spiegazioni gli agenti hanno compreso che era solo una goliardata, anche se stavano per portarmi via.
Sembrava la scena finale di “Scuola di ladri”, quando Banfi, Boldi e Villaggio scappano con la Coppa del Mondo tra le mani.
Hai presente?”
Rammenti quando è stata la prima volta che hai indossato quella maschera?
“Non ricordo di preciso che partita fosse, ma facevamo la Promozione.
C’è stato un periodo in cui appariva spesso e siamo arrivati al punto che lo stesso arbitro, prima di ogni match, ci chiedeva: “Ma oggi Cavallo Pazzo entra?”.
Alcuni stanno al gioco, altri no.
Qualcuno mi prende per matto”.
Prima parlavi di Casadei come giocatore al quale sei più affezionato.
Ne esiste uno che, se potessi, porteresti all’Atletico Vescovio?
“Tra i calciatori ho tanti amici bravi, di quelli che accarezzano il pallone.
Quelli che non sono capaci di farlo non li voglio nemmeno conoscere (ride).
Proprio perchè ne conosco tanti non vorrei scontentare nessuno.
Facciamo così: il nome non lo faccio, ma dico solo che ha quasi trentasette anni.
Leggendo l’intervista, il diretto interessato capirà che parlo di lui (sorride)…”.
Ore 11 della domenica: cosa provi dentro di te, quando vedi l’Atletico Vescovio scendere in campo?
“Le emozioni le sento di notte.
Io il sabato vado a dormire massimo alle dieci e mezzo, poi però mi sveglio alle cinque per la tensione.
Io per questa squadra non ci dormo, specie alla vigilia dell’esordio in campionato”.
Al primo anno di Eccellenza state facendo molto bene.
“I nostri giocatori non percepiscono rimborsi, ma tutti, anche i nuovi, si sono attaccati al club e se c’è da dare una mano non si tirano indietro.
Sono tutti splendidi ragazzi, meriterebbero altre platee.
Fin qui nessuno ci ha mai messo sotto durante una partita, anche se l’Eccellenza non è un campionato semplice.
In Promozione, se al novantesimo concedi una palla-gol agli avversari, può darsi che capita sui piedi di un macellaio che la butta fuori.
Qui invece ti castigano subito”.
Sotto quale profilo potreste migliorare?
“C’è sempre da migliorare, però la perfezione non esiste.
Non è perfetta la Juve che vince cinque scudetti di fila, figuriamoci se può esserlo l’Atletico Vescovio.
Piuttosto pesa il dover giocare a porte chiuse…”.
L’anno scorso, quando giocavate era uno spettacolo sugli spalti.
“Sia in casa che fuori era come se partissimo dall’1-0 per noi.
Purtroppo quest’anno, un po’ per il discorso delle porte chiuse, un po’ per il fatto che non vinciamo tutte le partite, non sempre i ragazzi ci seguono in massa.
Domenica però credo che a Ladispoli ne verranno tanti, anche per ringraziare gli ultras locali che nella passata stagione ci sostennero durante i play-off.
Con quei ragazzi c’è un bel gemellaggio”.
Domenica avete fatto la voce grossa con lo Sporting Città di Fiumicino.
“Prima di uscire di casa, tra me e me mi sono detto: “Caro Stefano, questi oggi te ne fanno tre”, poi però sono arrivato al campo ed ho visto i ragazzi carichi e concentrati.
La partita è stata maschia, certo, ma noi siamo una squadra che deve salvarsi.
Alla fine, posso dirti che noi sembravamo lo Sporting Città di Fiumicino e loro l’Atletico Vescovio”.
Il Ladispoli, vostro prossimo avversario, dovrà cominciare a preoccuparsi…
“Noi non siamo lo sparring partner di nessuno, chi ha detto che non possiamo raccogliere punti anche lì?
Loro hanno il potenziale per batterci, però non attraversano un buon periodo di forma.
Vedremo.
Comunque vada, l’unica cosa sicura è che io alla fine della partita abbraccerò il mio amico Solimina.
Io e lui siamo gente di borgata: Claudio è del Pigneto, io di Villa Gordiani, quindi ci intendiamo alla grande”.
A cosa saresti disposto a rinunciare pur di festeggiare la salvezza a fine anno?
“Mi cogli impreparato.
Così, su due piedi, posso promettere di non bestemmiare più”.
Amen.