ALESSANDRI, I GUANTI SUL CUORE: “IL MONTEROTONDO? SPERO CHE UN GIORNO LA GENTE DICA CHE HO MERITATO QUESTA MAGLIA”

ALESSANDRI, I GUANTI SUL CUORE: “IL MONTEROTONDO? SPERO CHE UN GIORNO LA GENTE DICA CHE HO MERITATO QUESTA MAGLIA”

Ci parli e sembra un veterano.

Ha il tono pacato di chi sembra averlo intrapreso già da un po’ il sentiero della saggezza, poi però sfogli l’almanacco e ti accorgi che quel ragazzo lì i suoi trent’anni è ancora lungi dal festeggiarli.

Carlo Alessandri è sempre lì, solido come una quercia, presente a se stesso ed agli altri tra quei tre pali.

Sta lì da quasi un quarto di secolo, quando seguì l’istinto senza sapere che già il suo dna lo spingeva verso un ruolo che era già appartenuto a suo padre e prima ancora al padre di suo padre.

Spesso la vita è un cerchio che si chiude ed ogni raggio conduce lì, a Monterotondo.

Casa amata, divenuta poi col tempo prigione degli incanti ed infine culla di sentimenti e speranze.

La rabbia e la pace.

Il tumulto e la lucidità.

Il portierone gialloblu si racconta, a cuore aperto, in una lunga intervista al nostro sito.

 

Alessandri, cominciamo dalla stretta attualità.

Venite da due vittorie consecutive e la classifica è tornata ad assumere toni di speranza.

“L’ennesimo cambio di allenatore (Liberati è complessivamente il quinto tecnico del Monterotondo negli ultimi due anni, ndr) ha chiaramente portato anche noi calciatori a fare qualche riflessione.

Il nostro è un gruppo che, per qualità organiche, non dovrebbe essere in quella condizione di classifica e se ci troviamo lì, le responsabilità sono anche nostre.

Per quanto riguarda il nuovo allenatore, posso parlarne solo bene.

Finora ha avuto il merito di trasmetterci una grande carica emotiva ed una diversa organizzazione in campo.

Ci ha fatto comprendere che per noi era probabilmente l’ultima opportunità di risollevarci.

In lui ravviso grande determinazione e padronanza delle dinamiche dello spogliatoio.

Senza dubbio, dal suo arrivo qualcosa è scattato dentro di noi…”.

Cosa non aveva funzionato con Fiocchetta ed Ippoliti?

“Onestamente non saprei rispondere a questa domanda.

A volte, abbiamo dimostrato di essere una squadra dalle corse quasi “insane”, facendoci del male da soli.

Forse i tanti cambiamenti hanno influito.

La mia opinione è che il successo di una squadra lo determinino in massima parte l’alchimia ed il feeling tecnico-tattico che si creano tra una squadra ed il proprio allenatore.

Componenti che, a volte, si realizzano ed altre no”.

I due successi su Grifone Monteverde e Ladispoli vi hanno permesso di accorciare la classifica rispetto a squadre attualmente fuori dalla zona-play out.

La salvezza diretta è tornato ad essere un tema d’attualità al Cecconi?

“E’ un obiettivo che aiuta a rendere più compatto il gruppo e ci fa macinare ancor di più in allenamento.

Ne parliamo spesso all’interno dello spogliatoio”.

E cosa vi dite, se posso domandarlo?

“Ci stiamo imponendo di aver fatto finta finora e che adesso abbiamo cominciato un nuovo torneo (ride)…”.

Un torneo che proseguirà con la visita del Fregene, ossia di una delle squadre più in forma del campionato.

Che gara si aspetta?

“Penso che sarà una partita molto bella ed intensa come le due che l’hanno preceduta.

Anche all’andata attraversavamo un buon momento e poi loro ci ridimensionarono pesantemente, causandoci anche qualche lacerazione nell’anima.

Aspetto con gioia ed anche con un pizzico di sana rivalsa sportiva la gara di domenica”.

Lei non ha ancora compiuto ventinove anni, eppure alle spalle ha già un’esperienza calcistica invidiabile.

Se la sente di tracciare un primo bilancio della sua carriera?

“Penso di aver attraversato tre fasi nella mia vita calcistica, oscillando dal tentativo di poter fare il professionista fino al ritrovarmi in Promozione.

Ai tempi degli esordi in Serie D sembravo un esaltato per come interpretavo il mio ruolo, poi mi sono sentito quasi un pugile suonato nel momento in cui certe porte si sono chiuse quando sembrava che stessi scalando il ranking…”.

Ed ora quale periodo sta vivendo?

“Adesso mi sono calato nuovamente nella realtà ed onestamente vivo meglio.

Ho superato la fase delle mille domande.

Ora mi diverto, è un periodo bello e coinvolgente”.

Di momenti belli, tuttavia il calcio gliene ha regalati anche altri in passato…

“Certo che ci sono stati.

Penso alla mia prima panchina in C1 nel 2003 contro il Rimini ed a quei cinque minuti di riscaldamento con il portiere titolare a terra, che sembrava non dovercela fare.

Per me è stato un momento in cui non è esistito tempo, storia, rumori, guerre.

Un momento prezioso, da ricordare”.

Guardiamo il bicchiere mezzo pieno: lei è tra i pochi privilegiati tra gli estremi difensori di esperienza che giocano da titolari nel massimo campionato regionale.

Riflessioni sparse?

“Come ho detto in precedenza, personalmente sto vivendo un periodo felice.

Detto questo, però, mi dispiace vedere tanti altri colleghi costretti a vedere il campo dalla panchina o dalla tribuna e non per loro demerito.

Sono dispiaciuto e mi rode anche perchè spesso giocano ragazzi che neppure provano la giusta riconoscenza per l’opportunità avuta.

I ragazzi non la vedono come una possibilità, come una palestra di vita.

Anni fa, io mi giocavo il posto con gente come Mangiapelo e Frattali.

Guardate dove sono adesso questi due.

Ora vedo intorno a queste categorie un’eccessiva inflazione di calciatori e questo porta alla perdita di interpreti che questi campionati potrebbero arricchirli”.

Cosa manca ai ragazzi per emergere?

“Io credo che vengano su da un imbuto troppo largo e non sono predisposti al rimprovero, quando sbagliano.

Se muovi loro una critica, la vedono come una messa in discussione del loro ego, mentre dovrebbero capire che stai offrendo loro un’occasione di crescita.

Io immagino questi ragazzi protetti e tutelati, quando sono in casa.

Il rammarico sta nel fatto che poi, quando si mettono in testa di ascoltarti, matematicamente le cose migliorano”.

Lei di portieri ne ha visti tanti.

Se le chiedessi di fare un solo nome, chi ha ammirato di più?

“Di estremi difensori di rango e che sono stati costretti ad una carriera non degna delle loro qualità ne ho conosciuti.

Penso a gente come Apruzzese e Iacomini, per esempio.

Il nome che però mi ronza maggiormente in testa è quello di Alessio De Angelis.

Lui possiede un’eleganza ed un modo di intendere il ruolo per cui provo un’ammirazione smodata.

Alessio è uno di quei tre calciatori che attualmente militano in Eccellenza e che, a mio giudizio, per le qualità tecniche in loro possesso e con il dovuto allenamento potrebbero tranquillamente giocare in Serie A”.

Quali sono gli altri due?

“Il nostro Matteo Federici e Michele Gallaccio”.

La vita di un uomo è sempre in bilico tra sogni e rimpianti.

Da cosa partiamo?

“Partiamo dai rimpianti.

Ne ho tre o quattro, ma i principali sono un paio.

Uno è sicuramente la rispostaccia che diedi anni fa a quello che allora era il mio allenatore a Cascina.

L’altro è costituito dalla stagione in D a Pisoniano.

Una scelta sbagliata e fatta per amicizia di una persona.

Fu un’annata sciagurata e culminata con una frattura al viso che mi tenne fuori per cinque mesi”.

Passiamo ai sogni.

Calcisticamente parlando, qual è il suo?

“Quando avrò smesso, mi piacerebbe molto, formare dei bravi portieri, come li intendo io:  senza ossessioni.

Forse sarà quello il momento in cui mi riconcilierò senza frustrazioni con il calcio”.

Ed esulando dalla materia calcistica?

“Spero di sentirmi all’altezza di mio padre e di tutto ciò che la mia famiglia mi ha insegnato.

Conquistare ciò che ho avuto l’ho sempre considerato possibile attraverso l’impegno ed il sacrificio, ma arrivare ad essere come mio padre è un altro paio di maniche…”.

Cosa significa per lei indossare la maglia del Monterotondo?

“E’ qualcosa di bellissimo e che mi è difficile descrivere a parole.

Sono nato e cresciuto in questo club.

A quattordici anni ero stato praticamente ceduto all’Ascoli.

Era tutto fatto, ma poi improvvisamente la trattativa saltò.

Ero avvilito, arrabbiato con il mondo intero e, quando poi me ne sono andato veramente, ho giurato a me stesso che qui non ci sarei più tornato.

Ora è tutto alle spalle e sono felice.

Per me vestire questa maglia è motivo di orgoglio ed avverto costantemente dentro di me la spinta ad onorarla al meglio nel senso più puro del termine.

Un giorno, mi piacerebbe che la gente di qui, vedendomi per strada, dicesse: “Lo vedi quello?

E’ Alessandri, uno che la maglia del Monterotondo se l’è sudata”.

Se dovesse accadere, significherebbe che qualcosa di buono è stato pur fatto”.