Esistono attimi, per definizione stessa fuggenti, unici, irripetibili, che possono segnare nel bene o nel male il destino di un uomo.
Quello di Alessio De Angelis, universalmente riconosciuto tra i migliori estremi difensori della nostra regione, si consuma in una serata inglese di dodici anni fa.
E’ il 4 novembre 2004, la Lazio è impegnata in una trasferta di Coppa Uefa a Middlesbrough.
Il titolare del ruolo, Matteo Sereni, è out per infortunio e ad un certo punto del match il suo vice, Fabrizio Casazza, accusa un risentimento muscolare.
De Angelis, promettentissimo portiere della formazione Primavera, nonchè titolare di tutte le rappresentative nazionali fino all’Under 19, si scalda per qualche minuto, infila i guanti e si sistema nei pressi della linea mediana del campo, laddove i calciatori si preparano a fare il proprio ingresso in campo.
La panchina attende un cenno da Casazza per procedere al cambio, ma improvvisamente il portiere dà rassicurazioni sul proprio stato di salute e Mimmo Caso ordina a De Angelis di accomodarsi nuovamente in panchina.
Forse è lì, in quella riga di gesso mai oltrepassata che si scrive il destino di Alessio.
Lì si siedono in un angolo i sogni ed entrano in gioco le angosce ed i rimpianti per ciò che poteva essere e non è stato.
Incubi che, a volte, ancora fanno capolino nelle notti insonni o in quelle chiacchiere tra amici che magari vivi con il sorriso sulle labbra ma con un senso d’incompiuto che ti mangia l’anima da dentro.
Oggi però De Angelis ha la maturità di domare la belva che gli dorme nel cuore.
L’equilibrio mentale glielo ha insegnato un ruolo che solo i coraggiosi possono caricarsi sulle spalle, la forza gliel’hanno sviluppata la sua Elena e le loro adorate bimbe, svezzate sui campi al seguito del papà e di quel talento che neppure il fato ha saputo portargli via.
Oggi Alessio è un uomo realizzato e sereno.
Da questa stagione difende i pali del Cre.Cas. e da oltre 270′ li mantiene inviolati.
Per molti addetti ai lavori questo ragazzo avrebbe meritato di più.
Noi che seguiamo i dilettanti però ce lo teniamo ben stretto.
E’ Alessio De Angelis il nostro Top Player di Eccellenza della scorsa settimana.
Cominciamo dalla stretta attualità: ultimamente state andando fortissimo in campionato.
Dall’avvento di David Centioni avete inanellato tre successi, conditi da tredici gol all’attivo e nessuno al passivo.
“E’ vero, stiamo attraversando un momento molto positivo.
Giorno dopo giorno, il mister ci sta dando un’identità che prima non riuscivamo ad esprimere al meglio.
Inutile negarlo, dal suo arrivo c’è stato un netto cambiamento”.
Cosa vi mancava in precedenza?
“Io credo fosse solo una questione di mentalità e di approccio alle partite.
La squadra c’è sempre stata e fin da subito sapevamo di essere competitivi, anche se mi rendo conto che gestire un gruppo composto da numerosi calciatori d’esperienza non è una cosa semplice”.
C’è la diffusa sensazione che in molti avessimo sottovalutato lo spessore del Cre.Cas.
Eppure, quando in squadra hai gente come te, Calabresi, Petroccia o Gallaccio, solo per citarne alcuni, non parti certamente per recitare un ruolo da comprimario…
“Sono d’accordo, in tanti ci hanno sottovalutato ed è stato un errore.
Questa squadra veniva già da un ottimo campionato ed è stata rinforzata dove serviva.
Siamo consapevoli di essere una formazione solida e competitiva e possiamo giocarci le nostre carte in un torneo che per me sarà bellissimo”.
Fino a qualche settimana fa, complice l’avvio super dello SFF Atletico, parecchi hanno detto che si sarebbe giocato solo per il secondo posto.
Nonostante questo, siete a soli quattro punti dalla vetta.
A tuo giudizio, il primato è attaccabile?
“Certo che lo è.
Questo è un campionato molto equilibrato ed ogni domenica puoi incontrare difficoltà anche quando non te le aspetti, vedi il Ladispoli che si pensava potesse vincere agevolmente a Poggio Mirteto ed invece ha conquistato solo un pari.
Gli ostacoli sono dappertutto e qualsiasi squadra può incontrare delle difficoltà.
Per questo dico che il successo finale non è un affare che riguarda soltanto lo SFF Atletico, ma anche noi, la Valle del Tevere ed il Ladispoli.
Ed aggiungo anche Civitavecchia e Montecelio”.
Nel frattempo, tu sei il portiere meno battuto del campionato e non incassi gol da oltre tre gare.
“Per chi ricopre il mio ruolo è naturale che terminare una partita senza aver subito reti rappresenti un successo.
D’altronde, quello rimane l’obiettivo principale di un portiere.
Ultimamente stiamo vincendo con scarti piuttosto ampi ed è proprio in questi casi che la concentrazione deve restare massima.
Vincere 4-0 o 4-1 per un portiere non è la stessa cosa, perchè basta subire un gol, magari a risultato ampiamente acquisito, per farti rientrare negli spogliatoi con il magone e l’amaro in bocca.
Ultimamente le cose stanno andando bene, ma il mio lavoro è facilitato dall’avere davanti gente che si chiama Calabresi, Passiatore e D’Ovidio”.
Durante l’estate sembrava che tu dovessi proseguire con il gruppo delle ultime stagioni a Montecelio, invece hai operato una scelta diversa.
“E’ stata dura lasciare dopo tanto tempo dei compagni ed un allenatore ai quali sono tutt’ora molto legato.
Con mister Amici il rapporto è rimasto buonissimo e ci sentiamo ancora spesso.
Se non ho smesso di giocare qualche anno fa, lo devo a lui ed a Marco Guidi”.
Quello del portiere è un ruolo meraviglioso.
Cosa spinge un ragazzo a mettersi i guanti?
“E’ difficile spiegarlo a chi non ha mai indossato la maglia numero uno.
Quando giochi in porta, ti ritrovi solo nella maggior parte del tempo e poi all’improvviso devi compiere in una frazione di secondo scelte che magari solo tu puoi comprendere fino in fondo.
Se vai a vedere, un portiere non ha molti momenti di gioia, anche se quelli in cui viene abbracciato da tutti i suoi compagni lo ripagano di tutto il resto.
Sì, rifarei la scelta di diventare un portiere, se potessi nascere di nuovo”.
Ricordi quando l’hai compiuta la prima volta?
“Da bambino giocavo in attacco, al Trullo, dove vivevo con la mia famiglia.
Per un periodo ho smesso per problemi privati, poi a dieci anni ho ripreso, ma mi sono accorto che mi piaceva anche giocare in porta.
Un giorno, ho chiesto a mio padre in quale ruolo mi vedesse meglio e lui mi ha indirizzato verso questo ruolo, essendo stato anche lui portiere”.
Negli anni successivi sei stato alla Lodigiani ed un bel giorno è arrivata la convocazione per la Nazionale Under 15.
“Quando mi allenavo alla Borghesiana, spesso vedevo arrivare le varie selezioni azzurre ed a mio papà dicevo: “Pur di essere chiamato, sarei disposto a portare anche le borracce”.
Un giorno, invece, fui convocato proprio io insieme ad un portiere della Juventus e ad un altro del Napoli.
Andammo in Inghilterra per un triangolare con il Brasile che si giocava in uno stadio di Liverpool.
Fu un’emozione bellissima vestire quella maglia e sentire l’inno nazionale.
Mister Rocca mi stimava molto e con lui feci tutte le trafile delle selezioni giovanili fino all’Under 19, giocando sempre da titolare.
Ironia della sorte: in quel periodo venivo preferito a gente che si chiama Viviano o Curci e che poi avrebbe più fortuna di me nel calcio”.
Qual è stato il bivio della tua vita calcistica?
“Non so.
Quando venni acquistato dalla Lazio, ero un portiere abbastanza quotato.
Ero un nazionale e molti credevano che avrei avuto un buon futuro.
Purtroppo arrivai in biancoceleste in una fase di passaggio da Cragnotti a Lotito e forse ho pagato questo, come tanti altri miei compagni di allora.
Penso a Delgado, a Torroni, a Sannibale.
Con Caso ho collezionato sette panchine in Serie A ed una in Coppa Uefa.
Quel giorno a Middlesbrough stavo per entrare, ma poi Casazza ha stretto i denti ed io sono rimasto lì, fermo su quella riga a centrocampo.
Chissà, magari se l’avessi varcata, il mio destino sarebbe potuto cambiare.
Bastava un passo, invece non mi è stato permesso di farlo.
E’ andata così”.
In seguito ci sei comunque tornato in Inghilterra.
“Ho giocato in una piccola squadra di Conference, ma è stata comunque un’esperienza interessante.
Al mio arrivo un giornale ritrovò le foto del mio esordio con la maglia della Nazionale e rimasi stupito”.
Hai digerito il passato o devi ancora convivere con il rimpianto?
“E’ difficile nasconderlo.
Quando ti ritrovi da solo, il pensiero va sempre a quei momenti.
Poi però c’è anche la consapevolezza di aver dato sempre il massimo, anche se forse non mi sono trovato al posto giusto nel momento giusto.
E’ così che si dice? (sorride)”.
Però restano anche le soddisfazioni, come quella di essere stato scelto come modello per la copertina di un libro…
“Tempo fa, mister Alessandro Carta, che è stato per tanti anni il mio preparatore sia alla Lodigiani che alla Lazio, ha pubblicato un libro intitolato “Manuale tecnico del portiere” per la casa editrice Hoepli ed in copertina c’è la mia faccia.
Una soddisfazione, è vero, perchè con il mister abbiamo condiviso tantissimi momenti, vivendo quasi in simbiosi come dovrebbe fare ogni portiere con il suo preparatore.
Lui mi ha letteralmente plasmato”.
In quegli anni hai avuto modo di crescere accanto ad un monumento come Angelo Peruzzi.
“Da lui ho imparato tanto.
Durante i ritiri stavo sempre insieme a lui, durante gli allenamenti ed in camera durante i ritiri.
Quelli della mia generazione non possono non avere per modello lui o Gigi Buffon”.
Ti succede mai di aver paura quando giochi?
“Prima no, ma ero molto più incosciente.
Adesso che sono maturo, capita di ripensare a situazioni che magari hai vissuto in passato e quindi agisci con meno impulsività in certi frangenti”.
Tu appartieni alla scuola di coloro che pensano che un portiere debba parlare molto durante una partita o preferisci restare per lo più in silenzio?
“Per me deve parlare il giusto, magari aiutando un compagno che non può accorgersi di una determinata situazione.
Non deve eccedere però, altrimenti rischia di mettere pressione”.
C’è una parata che ti è rimasta particolarmente impressa?
“Tante parate, tanti momenti, ma non una nello specifico.
Per me quella che per uno spettatore può sembrare una parata eclatante, magari è meno importante di una parata in apparenza “stupida”.
Non so se riesco a spiegare ciò che voglio dire, ma a me piace immaginare la parata durante la partita”.
E’ vero che in alcuni casi un portiere riesce a far tirare un attaccante esattamente come vuole, magari con un semplice sguardo o un movimento?
“La differenza tra professionisti e dilettanti è tutta lì.
Un professionista sa sempre cosa farai in anticipo”.
Ti riferisci ai calci di rigore?
“Non tanto e comunque non solo.
Diciamo che ci sono sensazioni che ti dicono: “Ok, preparati perchè tanto tira lì”.
A quei livelli si gioca un altro calcio: i tiri o i cross arrivano in maniera molto più pulita.
Va però detto che noi dilettanti giochiamo su campi spesso impraticabili e, nonostante questo, spesso riusciamo a tirar fuori gesti tecnici degni delle categorie superiori”.
Tra i tuoi colleghi ne esiste qualcuno la cui presenza tra i dilettanti ti sorprende in modo particolare?
“Ce ne sono tanti, anzi direi che in ogni squadra di Eccellenza c’è almeno un ragazzo che avrebbe meritato una sorte migliore dal calcio.
Da noi, per esempio, c’è Gallaccio, ma potrei citare tranquillamente anche Neri, Nanni o Cesaro”.
So che hai costruito una famiglia stupenda insieme a tua moglie Elena, peraltro apprezzatissima fotografa delle tue gesta domenicali.
“La famiglia è tutto, ti dà equilibrio.
E’ la vita reale.
Abbiamo due bimbe di cui sono pazzo: Gemma è la più grande e Khloe la più piccina.
Lei è nata nel mese di giugno e poche settimane dopo era già sugli spalti di un campo a seguire il papà durante la preparazione estiva.
Loro tre ed i miei genitori sono sempre presenti, quando gioco.
Per me sapere che sono lì è molto importante”.
Sei un apprezzatissimo portiere nella nostra regione e, magari egoisticamente, noi siamo contenti di aver potuto godere delle tue prodezze in questi anni.
Esiste un obiettivo che hai nella testa?
“Mah, a trentadue anni da compiere a febbraio bisogna essere concreti e razionali, dunque la speranza è di continuare a far bene in questa categoria.
Sarebbe assurdo ormai pensare di mollare un lavoro stabile per rincorrere qualche chimera.
A volte, però, la sera vado a letto e mi metto a fantasticare come quando ero un ragazzo su come sarebbe bello se all’improvviso il calcio mi desse l’opportunità di attraversare quella famosa riga bianca e correre verso una porta importante…”.