LUCIDI: “SERPENTARA, RESTO MA NON PARLARMI DI ANNO DI TRANSIZIONE”

LUCIDI: “SERPENTARA, RESTO MA NON PARLARMI DI ANNO DI TRANSIZIONE”

Con le sue serpentine, i suoi gol e quel suo modo di fare, a metà tra il guascone e l’irridente ha saputo conquistarsi l’affetto di tanta gente sparsa per l’Italia, quando era ancora un giocatore.

Fabio Lucidi è arrivato in Serie B quando, folletto indemoniato con i capelli da rockstar, trotterellava per il campo con l’aria di chi sapeva di poter indirizzare una partita con una semplice giocata.

Ad Ancona, Ferrara e Siracusa c’è gente che ancora si rivede i suoi gol e c’è pure chi conserva con cura i ritagli dell’epoca o un autografo su carta ingiallita e spiegazzata tenendoselo nel portafogli come un talismano, come un trofeo di quegli anni imbevuti di passione, di genuinità, di valori che poi lentamente e non si sa neppure dove li abbiamo smarriti.

Tutti persi dietro facili incanti o abbagli fatali, abbiamo forse dimenticato le radici più vere del calcio.

Quelle di un’epoca prossima, eppure ormai lontana anni luce, in cui i giocatori non si costruivano nei laboratori quasi alchemici dei più evoluti settori giovanili, ma per strada.

Sponda dopo sponda contro un muro che poteva esserti amico o nemico, a seconda di come trattavi il pallone.

Lividi e sbucciature, nel corpo e nell’anima, che lui non dimentica ma di cui va fiero.

Anzi, si porta dietro tutto, perchè è vero che una vittoria come quella che lui ha festeggiato nove giorni fa con il suo Serpentara ti fa più bello e più bravo agli occhi della gente, però poi c’è sempre un uomo con cui dover fare i conti alla fine della giornata.

E lui è da sempre il peggior nemico di se stesso, da questo punto di vista.

“Un piede nel passato e lo sguardo dritto e aperto nel futuro”, cantava Bertoli ed il verso lo rispecchia.

A Bellegra ed Olevano Romano ora è trattato quasi da vate e la sua conferma la danno per scontata, ma lui prima di dire sì vorrebbe che si fissassero degli obiettivi ben precisi.

Un anno di transizione rappresenta una metafora ambigua, mentre lui ambirebbe a cavalcare l’onda lunga di un successo che potrebbe far sognare club e tifosi anche nel massimo campionato regionale.

Le parti si incontreranno, valuteranno le condizioni e poi decideranno con la sincerità di chi ha imparato a conoscersi ed apprezzarsi negli ultimi sei mesi.

Nell’attesa di scrivere la prossima pagina del proprio libro personale, Lucidi ha deciso di aprirsi a noi ed ai nostri lettori.

Personaggio irrequieto, a tratti spigoloso e che difficilmente si presta alle sfumature.

Quelli come lui puoi amarli o detestarli, senza vie di mezzo.

In questa intervista c’è molto del suo modo di vivere la vita ed interpretarla secondo i suoi parametri.

 

Lucidi, sono trascorsi nove giorni dal trionfo del Serpentara.

Cosa rimane di una stagione come la vostra?

“Prima di accettare la proposta del Serpentara a novembre, ho avuto modo di parlare con altre società, anche di settore giovanile.

Con questo club ho trovato un qualcosa che mi si è cucito addosso fin da subito.

Ho parlato con i due presidenti e non c’è stata alcuna difficoltà nel raggiungere l’accordo.

In tutta questa situazione, però, c’è stato un dettaglio che ha fatto la differenza…”.

Quale?

“Il fatto che a chiamarmi sia stato “Pallino” (il direttore sportivo Alessandro D’Antoni, ndr).

Con lui, in passato, si era creata qualche incomprensione, all’epoca del mio ritorno a Pisoniano.

Per me è stato un gesto significativo ed importante che a fare il primo passo  per appianare la situazione sia stato lui.

Sono cose che per me hanno un valore.

Se devo essere onesto, non pensavo davvero di venire ad allenare qui a Bellegra.

Avevo visto la squadra solo una volta in Coppa Italia, sul campo del Casal Barriera, e mi aveva fatto un’ottima impressione.

Ricordo che vinsero quella partita 3-0 e che mi fecero un’ottima impressione”.

In seguito le cose sono cambiate.

“Quando sono arrivato, non ho guardato la classifica, ma mi sono messo semplicemente a lavorare secondo le mie idee ed i miei principi”.

Walter Falanesca e Luciano Ferro: che tipi sono i due presidenti del Serpentara?

“Walter mi somiglia molto.

In apparenza è burbero, scontroso, poi se riesci a conoscerlo veramente ed a farti apprezzare, scopri una persona pronta a darti il cuore.

E’ una persona che mi piace tanto.

Luciano, invece, è stato importante nel momento in cui si è trattato di ricucire determinate situazioni, quando si sono venute a creare.

Nel momento della vittoria finale è esplosa tutta la gioia che covava dentro”.

Bellegra ed Olevano in passato non avevano fatto mistero di essere entità distanti tra di loro.

A che punto le è parso, dal di dentro, il processo di unificazione di queste due realtà?

“Vi racconto un aneddoto: quando sono arrivato, studiavo, cercavo di capire i comportamenti ed i modi di tutti per notare eventuali distonie.

Mi ci sono voluti pochi giorni per capire che questa squadra era un bene condiviso da tutti.

Soltanto verso la fine del campionato ho capito chi era di Olevano Romano e chi di Bellegra, ma tutti, e sottolineo tutti, mi hanno messo a disposizione qualsiasi cosa fin dal primo momento.

In un’epoca di fusioni, l’esperienza del Serpentara dovrebbe servire da esempio a tante altre società”.

Torniamo con la mente al triplice fischio dell’arbitro Saia di Palermo.

Personalmente mi sono rimaste impresse alcune immagini e sue dichiarazioni.

Da dove partiamo?

“Cominciamo dalle parole”.

D’accordo.

Mi ha colpito molto il fatto che per prima cosa lei abbia tenuto a sottolineare i meriti di chi l’aveva preceduta sulla panchina del Serpentara.

“Fabrizio Centra ha portato qui punti e giocatori, di cui alcuni sono rimasti qui fino alla fine del campionato.

Io considero importante l’aspetto umano nel calcio ed il mio voleva essere semplicemente un attestato di stima nei confronti di un allenatore che ha dimostrato sul campo di essere bravo.

Mi sembrava naturale sottolineare anche i suoi meriti.

Si sa come funziona nel nostro mestiere: un giorno sei un profeta, quello dopo ti mandano a casa”.

Passiamo alle immagini.

Cosa prova un tecnico nel momento in cui, appena finita la partita che decide un campionato, i giocatori corrono subito ad abbracciarlo?

“Quello che io ed i ragazzi abbiamo vissuto insieme è stato un feeling speciale.

Mi era già accaduto in passato di legarmi profondamente ad un gruppo, ma da allenatore non avevo mai provato la felicità che scaturisce dal successo finale.

I ragazzi erano un po’ impauriti nelle ultime due settimane, perchè non eravamo ancora riusciti a chiudere definitivamente il discorso ed a vincere un campionato che avevamo meritato di fare nostro.

Alla fine, la tensione si è sciolta ed è venuta a galla la felicità.

Quella scena resterà per sempre nella mia mente.

Mi ripaga di sei mesi vissuti senza aver messo la testa fuori dalla terra.

Con quel gesto è come se i ragazzi mi avessero implicitamente detto che durante l’anno era stato giusto chiedere loro sacrifici che andavano anche oltre quelli di una categoria come la Promozione”.

Altra immagine: contro il Cre.Cas. erano presenti in tribuna anche i suoi genitori.

Suo padre era commosso.

“Io ho a che fare con il calcio da quando avevo otto anni ed ormai ho fatto il callo a tutto.

Ho avuto momenti di gloria ed altri in cui mi sono piovute addosso critiche, alcune giuste, altre cattive.

Ormai so convivere con tutto.

Loro, no.

Loro ci rimangono male, quando sentono che c’è chi nutre dubbi sulle mie capacità.

In quel momento la loro felicità era lo specchio di chi, fino a pochi istanti prima, aveva vissuto la partita con agitazione, temendo che potesse andar male.

La mia gioia più grande è stata dare una gioia a loro, a mia moglie ed ai miei figli che erano a casa, a Walter che al fischio finale era in paradiso ed a tutta quella gente presente al campo.

Quando abbiamo fatto la cena, tanta gente è venuta a ringraziarmi.

Leggere la felicità negli occhi delle persone e scoprire che anche tu hai contruibuito a donargliela è un qualcosa che per me non ha prezzo”.

Quella con il Serpentara è stata la sua prima vittoria da tecnico in carriera.

Questo riveste un senso liberatorio per lei?

“L’ipocrisia non mi appartiene.

A nove giorni di distanza, posso dire che il successo amplifica tutto: ti fa sembrare più alto, più bello, più bravo.

Io faccio i conti con altre situazioni, con quella che è e rimane la mia vita, ma le cose intorno a me le noto.

Io ho sempre cercato di fare al meglio il mio lavoro, però la vittoria fa accorgere molte persone che anche il tuo metodo di lavoro può portare al risultato finale.

Anche lavorando e sacrificandosi un po’ più del dovuto”.

In passato, lei è stato compagno di squadra di gente come Mazzarri e Marino.

Si è mai chiesto perchè loro sono finiti in Serie A e lei no?

“Io credo che per fare l’allenatore a certi livelli bisogna essere legati a certe situazioni e poi ti devi anche permettere di aspettare anni la tua occasione.

Io ho dovuto far fronte anche ad altre esigenze e questo tempo non potevo concedermelo.

Aggiungo pure che sia Mazzarri che Marino di gavetta ne hanno fatta tanta ed hanno dimostrato sul campo di avere le qualità per svolgere questa professione.

Se mi soffermassi a fare questi confronti, finirei col piangermi addosso e non è da me.

Anzi, per come sono fatto io la chance che mi ha dato il Serpentara è stata importantissima e sono grato a questa società.

Le vittorie ti danno una certa luce, ma io non sento di aver fatto chissà che cosa.

Ero Lucidi anche prima di nove giorni fa…”.

Chi la conosce bene sa che lei è una persona schietta.

Ha mai avuto la sensazione di aver pagato dazio al suo modo di essere?

“Da giocatore ho vissuto sulla mia pelle un modo di fare che prevedeva il non schierarsi e questo non l’ho mai sopportato, perchè significava quasi non rispettare la propria stessa persona.

Quando ero tra i professionisti ed avevo un contratto in mano, a me sembrava normale prendere di petto le situazioni ed andare in sede a parlare con un direttore sportivo o un presidente, se c’era qualcosa che non mi andava a genio.

Il bello è che tra le persone con cui ho discusso in maniera anche accesa, nel tempo con alcune di loro sono nate amicizie vere, profonde.

Fa parte del calcio e della vita.

Essendomi comportato in un certo modo quando ero tutelato da un contratto, a maggior ragione sento di doverlo fare ora tra i dilettanti dove la situazione è quella che è.

Io sono fatto così e dichiaro il mio modo di essere fin dal primo istante.

Se poi la gente non recepisce i messaggi che spedisco, è giusto che mi mandi via”.

Un modo di fare che utilizza anche attraverso il suo seguitissimo profilo Facebook.

“Utilizzo il social network solo per comunicare delle sensazioni che vengono fuori dal cuore, mettendole per iscritto”.

Cosa la infastidisce di più?

“Vivo male l’ingiustizia.

Non sopporto chi approfitta degli altri e non sopporto neppure chi non fa nulla per ribellarsi”.

Da giocatore lei puntava molto sull’estro, la generosità ed il talento.

A suo giudizio, queste caratteristiche sono ancora presenti nel calcio odierno?

E’ un discorso che va con i tempi.

Ai giorni nostri, nn puoi chiedere ad una mamma di mandare il figlio a giocare per strada.

Noi facevamo addestramento con le serrande chiuse e con il battimuro, come mi ha sempre detto il mio maestro Roticiani.

La purezza di quel calcio non ce la renderà più nessuno.

Questa è un’epoca in cui i meriti acquisiti contano zero.

Prendete la Nazionale.

Se c’è mai stato un momento in cui l’amore per la Nazionale e l’interesse per la vita politica del Paese vanno di pari passo, credo sia proprio quello che viviamo”.

Lei ha giocato con attaccanti del calibro di Paradiso, Artistico e Scarafoni in passato.

Ce n’è uno con cui le sarebbe piaciuto condividere la prima linea?

“Me ne vengono in mente tre: Negri, Tiberi e Sgherri.

Tre “pazzoidi”, tre teste con cui mi sarebbe piaciuto molto giocare”.

Tra questi so che lei aveva una predilezione speciale per l’ex Rangers Glasgow…

“Lo apprezzavo molto, sia sotto il profilo tecnico che sotto quello della personalità.

Quando ha smesso di giocare, ha dichiarato che non avrebbe parlato più con nessun giornalista e così ha fatto.

Uno vero”.

Battipaglia, Siracusa, Acireale, Ferrara, Ancona: in ognuno di questi luoghi lei ha lasciato ricordi importanti e, immagino, anche pezzi del suo stesso cuore.

Da allenatore dove tornerebbe con maggior piacere, se la richiamassero?

“Se mi metto a sognare ad occhi aperti per un attimo, ci sono posti dove adorerei allenare e tornerei di corsa.

Poi però la realtà è un’altra ed allora bisognerebbe verificare la fattibilità della cosa, i progetti…

Inoltre, nel caso in cui accadesse, mi piacerebbe essere chiamato non perchè sono uno stimato ex, ma perchè a qualcuno piace come alleno e come faccio giocare una squadra.

Sono consapevole di essere un tecnico che dà tutto se stesso, ma che pretende anche molto.

A Walter, per esempio, ho chiesto carta bianca, perchè c’erano delle situazioni che non mi andavano bene.

Il presidente ha scommesso con me ed in seguito i ragazzi mi hanno aiutato a “prendermi tutto il piatto”, come si dice in gergo.

Ho fatto questa divagazione solo per dire che nel mio futuro la mia priorità va al Serpentara, senza se e senza ma.

Prima di decidere che strada intraprendere l’anno prossimo, devo sentire loro.

Solo dopo prenderò una decisione, partendo però da un presupposto: la riconoscenza per me è tutto”.

Il Serpentara dà per scontata la sua conferma in Eccellenza.

Lei cosa risponde?

“Devo parlare con i presidenti e capire cosa hanno in mente per il prossimo anno.

Io sarei felice di restare qui ed al Serpentara va la mia priorità, ma i programmi devono essere chiari fin da subito.

Esistono dei punti su cui la società deve accordarsi con l’amministrazione comunale.

Ciò che posso dire è che io non voglio partire con la frase “anno di transizione” nella testa.

Il mio sogno sarebbe quello di provare a vincere anche l’anno prossimo, sarebbe splendido percorrere questa scia.

Nei prossimi giorni ci incontreremo e valuteremo insieme”.

Di solito, un gruppo reduce da un successo in Promozione viene smantellato dopo l’approdo nella categoria superiore.

La turba questo pensiero?

“Solo una volta ho allenato per due stagioni di fila una squadra, a Velletri, ma lì era una situazione diversa.

Io sono dell’avviso che favole come la nostra non vanno smontate.

Questo è un gruppo che ha un grande feeling tra i suoi componenti e sono convinto che, con i dovuti accorgimenti, potrebbe recitare un ruolo importante anche in Eccellenza il prossimo anno”.

Ha una dedica particolare per questo successo?

“A nome mio e di tutto lo staff, Francesco De Angelis, Gino D’aprano e Renato Cera, vorrei dedicare la nostra vittoria a chi purtroppo non ha potuto festeggiarla, pur essendo uno dei protagonisti principali.

Noi tutti vorremmo mandare un abbraccio infinito a Franco De Paolis ed alla sua famiglia”.