CESARINI AMMAINA LA BANDIERA: “GIOCATE SEMPRE CON IL SORRISO SULLE LABBRA”

CESARINI AMMAINA LA BANDIERA: “GIOCATE SEMPRE CON IL SORRISO SULLE LABBRA”

“Cos’è quella faccia terrorizzata?

Il calcio è gioia e come tale va vissuto”.

Ricordatelo e, se potete, fatelo vostro, perchè questo rimarrà l’ultimo consiglio dato da capitano ad un suo giovane compagno di squadra che stava entrando in campo.

Sì, perchè il vittorioso play-out di domenica scorsa contro il Civitavecchia ha rappresentato l’ultima esibizione ufficiale di uno dei più completi difensori dell’ultimo ventennio nel calcio laziale.

A trentotto anni, Marco Cesarini ha detto stop.

Una decisione presa per poter ricambiare al 100% l’amore e la pazienza di sua moglie Elisa, che dal 1998 non lo ha mai abbandonato neppure per un istante, e dei loro bimbi Flavio e Flaminia che adesso avranno il papà tutto per loro anche nel fine settimana.

La scelta ormai è compiuta, anche se questi sono giorni di comprensibile malinconia per questo eroe silenzioso del nostro calcio e per tutti coloro che adesso si sentiranno un po’ più soli non leggendo più il suo nome nel tabellino delle partite.

E’ ancora confuso, Marco.

Da giorni gli piovono addosso mille ricordi ed altrettanti attestati di stima da compagni vecchi e nuovi e dagli avversari di tante battaglie più o meno recenti.

Dopo ventuno stagioni di onorata militanza, sentirsi destabilizzati è umano, umanissimo.

Collegare in modo errato i fili quando di mezzo ci sono i sentimenti può causare inneschi pericolosi.

Noi abbiamo voluto sfidare la sorte.

 

Marco, nessun ripensamento?

“No, ormai ho deciso: smetto.

E la mia è una scelta convinta e meditata.

Provo un grande dispiacere, perchè domenica si è definitivamente conclusa una parte della mia vita che non tornerà più indietro.

Nella mia vita esistono però elementi molto più importanti del calcio ed a questi ora voglio dedicarmi.

Penso a mia moglie Elisa ed ai nostri bimbi, Flavio e Flaminia”.

Quanto è importante per un calciatore avere alle spalle una famiglia unita come la tua?

“La serenità familiare è fondamentale.

Se non si è tranquilli dentro, è impossibile rendere in campo.

Da questo punto di vista, non posso che ringraziare Elisa, che dal ’98 mi è accanto, i nostri bambini ed i miei genitori Alberto e Loredana”.

Se ti guardi alle spalle, cosa rimane?

“Rimane l’Almas, la trafila nel settore giovanile con Franco Rofena che è stato il mio primo maestro e tre anni con la prima squadra: lì c’è un pezzo del mio cuore.

Rimangono però anche il campionato vinto a Fregene, le esperienze a Grotte di Castro ed Isola del Liri, gli otto anni dedicati al Civitacastellana ed i sette al Montefiascone”.

Emerge una grande fedeltà di fondo alle maglie che hai indossato.

“Per me è sempre stato naturale restare dove mi trovavo bene e questo mi ha ripagato anche dal punto di vista dei rapporti umani.

Spesso nel calcio di oggi si prediligono strade diverse, come quelle che portano a privilegiare l’aspetto economico o un obiettivo nel breve periodo.

Io ho fatto scelte diverse”.

Ventun anni di calcio giocato equivalgono ad una quantità di ricordi non indifferente.

Ti chiedo di sceglierne uno.

“E’ molto difficile rispondere a questa domanda.

Mi salvo e dico che il più bello è anche quello più fresco: la partita di domenica.

Chiudere in quel modo con il Montefiascone, raggiungendo una salvezza durissima, è stato stupendo, così come lo sono stati i miei compagni di squadra prima e dopo, dedicandomi ogni attenzione possibile e poi la vittoria stessa.

Terminare così la mia vita da calciatore è stato un po’ come raccogliere i frutti di tanti anni di sacrifici”.

Al triplice fischio dell’arbitro domenica scorsa quale sentimento prevaleva in te?

“Come dicevo prima, per me non poteva esserci finale più bello.

Però, c’è stata anche tanta malinconia.

Mi sono detto: “Va bene, Marco, adesso è finita veramente.

Questa è l’ultima volta in mezzo ad un campo di calcio”.

Mettiamola così: ho vissuto sensazioni contrastanti dal punto di vista emotivo”.

Ora che è finita, quale calcio ti lasci alle spalle?

“Un calcio che naturalmente è cambiato molto nel corso degli anni.

Un calcio molto esasperato e dove forse si dà eccessiva importanza al raggiungimento del risultato ad ogni costo più che a quei valori che personalmente ritengo fondamentali per lo sport, come il rispetto per l’avversario ed il riconoscimento del suo valore.

La trovo una concezione sbagliata e che probabilmente deriva dal professionismo”.

A volte, si parla anche di problema generazionale.

Ma sono così diversi da voi i giovani d’oggi?

“Mah, è sempre difficile fare confronti.

Con il trascorrere degli anni si tende a dimenticare gli errori che si commettevano in gioventù.

Chi non ha sbagliato?

Magari quelli della mia generazione giocavano in squadre dove i “vecchi” erano in numero superiore e quindi ti veniva naturale seguire i loro consigli.

Oggi invece gli under sono in netta maggioranza e farli allineare ad un pensiero che ritieni corretto risulta più complicato”.

Un tempo si parlava di nonnismo nello spogliatoio.

E’ un concetto sbagliato a prescindere o aveva anche aspetti positivi nella crescita di un giovane?

“Io sono dell’avviso che le maniere rudi non siano educative, ma che ad educare un ragazzo concorra molto più un esempio positivo.

Probabilmente noi della nostra “epoca” ne avevamo di più, perchè i cosiddetti senatori erano in numero prevalente ed era normale seguire la corrente della maggioranza.

Oggi invece gli equilibri si sono rovesciati e per un giovane è più dura…”.

Qual è stato l’attaccante che più ti ha dato fastidio per caratteristiche?

“Non la metterei su questo piano.

Diciamo che ce ne sono stati alcuni che mi stimolava molto affrontare.

Penso a Sgherri, uno duro ma sempre molto leale, ma anche Alfonsi.

Giocatori di un’altra categoria, senza se e senza ma”.

Continuiamo sulla china dell’amarcord: i compagni di squadra con i quali hai stabilito il feeling migliore?

“Sono decisamente tanti e non vorrei fare torto a nessuno.

Forse tra tutti farei i nomi di Mauro Mazza ed Alessio Bianchi.

Con loro due nel tempo è rimasto un legame forte e sincero e che va al di là del campo”.

L’allenatore che ti ha trasmesso di più?

“Ne ho avuti tanti ed ognuno di loro mi ha lasciato qualcosa, anche se chi ha giocato al calcio sa che c’è sempre chi ti dà di più e chi di meno.

Tra i tanti cito quattro nomi: Stefano Del Canuto, mio ultimo e bravo tecnico, che ringrazio per avermi permesso di giocare fino a questa età, Andrea Calce, che ai tempi di Fregene mi ha fatto soffrire lasciandomi spesso in panchina, ma facendomi comunque crescere, e poi ancora Bruno Pierangeli e Daniele Antolovic.

Li saluto tutti con affetto e riconoscenza”.

Qual è stata la squadra alla quale sei rimasto maggiormente legato?

“Direi a quel Civitacastellana che nel 2005 si giocò, perdendolo, lo spareggio con il Pisoniano.

Forse sono condizionato dall’affetto che nutro per i miei compagni di allora, però eravamo davvero un gruppo affiatato e con una difesa fortissima.

Quando ci mettevamo in testa di non far segnare la squadra avversaria, per gli altri non c’era proprio verso.

Non si passava.

Forse il limite di quella squadra fu paradossalmente l’eccessiva correttezza.

Con un pizzico di malizia in più quel campionato lo avremmo portato a casa noi.

Pazienza…”.

Sei ancora in contatto con il presidente Ciappici?

“Ogni tanto ci sentiamo.

Lo considero più un amico che un ex presidente.

Non credo abbia saputo della mia decisione di appendere gli scarpini al chiodo.

Quando lo saprà, probabilmente proverà anche lui un pizzico di amarezza, se lo conosco bene”.

Ogni calciatore, arrivato il tempo dei bilanci, ha un personale rammarico.

Il tuo qual è?

“Più che di rammarico parlerei di curiosità inespressa.

Dopo l’esperienza a Grotte di Castro, nel 1999 ho avuto la possibilità di andare a Fano e far parte di una squadra che si stava attrezzando per vincere.

Purtroppo la cosa non si è realizzata.

Mi sarebbe piaciuto vedere cosa sarebbe successo in seguito, se invece fossi approdato lì”.

Un bagaglio di esperienza come il tuo sarebbe delittuoso disperderlo.

Rimarrai nel mondo del calcio e, se sì, in quale veste?

“Adesso voglio prendermi un periodo di break per dedicarmi esclusivamente alla mia famiglia.

In futuro mi piacerebbe allenare i più piccoli, ma anche ricoprire un incarico dirigenziale.

Allenare una prima squadra?

Non credo farebbe per me”.

E’ il momento dei saluti, Marco.

“Li rivolgo ai miei compagni di squadra del Montefiascone, ma anche a tutti i colleghi che ho incrociato in questi lunghi anni.

A tutti auguro le migliori fortune, cercando di giocare sempre con il sorriso sulle labbra.

Se non si gioca con gioia, è davvero finita”.